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Il segreto dei gatti arancioni: la genetica è riuscita a svelare il mistero

Stefano Genovese
01/06/2025
Scienza
gatto arancione

Il fascino dei felini dal mantello fulvo attraversa secoli di pittura, letteratura e grande schermo: da Garfield al Gatto con gli Stivali, passando per Romeo degli Aristogatti, la loro presenza colpisce l’immaginario collettivo.

Per lungo tempo, però, il motivo genetico di quella tinta vivace è rimasto un mistero. Oggi, grazie a due ricerche indipendenti pubblicate su Current Biology, la nebbia si dirada: tutto ruota attorno a una piccola cancellazione di DNA situata a monte del gene Arhgap36 sul cromosoma X.

Il cromosoma X

La distribuzione dei colori nei felini domestici non è casuale. I maschi possiedono un solo cromosoma X, mentre le femmine ne hanno due. Se la cancellazione che accende il mantello fulvo risiede proprio sull’X, basta una sola copia della variante perché un maschio diventi completamente arancione.

Le femmine, al contrario, necessitano di due copie identiche: quando se ne presenta una sola, il secondo cromosoma “normale” alterna la produzione di pigmenti, ed ecco comparire quelle tipiche chiazze arancioni che si alternano a zone di altro colore.

In pratica, il mosaico del manto femminile nasce dall’attivazione casuale di un solo cromosoma X per cellula durante lo sviluppo embrionale.

Dalla mutazione alla comparsa del colore

Le équipe di Stanford e della Kyushu University hanno analizzato campioni provenienti da felini di tinte differenti.

Ogni esemplare completamente arancione mostrava la stessa piccola delezione a monte di Arhgap36 — un gene mai collegato in precedenza alla pigmentazione.

L’assenza di quel frammento di DNA funziona come un interruttore: in cellule dove normalmente il gene resterebbe silente, l’errore di “taglio” ne avvia la trascrizione.

Nel follicolo pilifero, l’attivazione extra di Arhgap36 spinge i melanociti a produrre feomelanina, il pigmento responsabile delle sfumature dal crema al rosso mattone.

Un dettaglio minuscolo del genoma, quindi, determina un risultato visibile a occhio nudo su tutto il corpo del gatto.

Un tratto antico, nato con la domesticazione

Christopher Kaelin, primo firmatario dello studio statunitense, sottolinea che la variante sarebbe apparsa nei primi secoli di convivenza tra uomo e gatto. Osservando miniature medievali del XII secolo, i ricercatori riconoscono già i classici manti maculati dei “Calico”, segno che la mutazione esisteva da tempo.

Il gruppo guidato da Hiroyuki Sasaki, in Giappone, desidera spingersi ancora più indietro: l’idea è vagliare i dipinti egizi e persino esaminare il DNA di felini mummificati per capire quando e dove il segmento mancante sia comparso per la prima volta.

Secondo Sasaki, si tratterebbe di un progetto ambizioso ma realistico, capace di collegare genetica moderna, archeologia e storia dell’arte.

In attesa di queste verifiche, la scoperta della delezione su Arhgap36 offre una risposta definitiva a un quesito che ha appassionato genetisti e allevatori: perché alcuni gatti sono integralmente arancioni mentre altri mostrano soltanto macchie?

La soluzione era scritta — letteralmente — in poche basi del loro cromosoma X, invisibili ma decisive.

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